Nebbia

Chiara Beretta
8 min readNov 30, 2020

Questo racconto è stato pubblicato sulla rivista Carie letterarie a ottobre 2017.

Henri-Georges Clouzot, di Duane Michals (1968)

Guida con estrema lentezza sulla strada di campagna che conosce a memoria. Non può vederlo, ma alla sua destra un fossato non molto profondo corre lungo la solitaria striscia di asfalto per qualche chilometro. A sinistra, ugualmente invisibili, ci sono solo campi, sterpaglie e qualche albero spoglio. È un paesaggio di una certa bellezza, in realtà, se si ha la fortuna di attraversalo quando è incendiato dai raggi obliqui del sole. Ma non è questo il caso. È gennaio. La nebbia nasconde ogni cosa. È in ritardo per la cena. Oggi compie cinquant’anni.

Stringe le mani intorno al volante e spinge la testa leggermente avanti: vede a malapena un metro di asfalto. Rallenta ancora. Sarebbe un’enorme seccatura finire con una o due ruote nel fosso. Proprio stasera, poi. Sua moglie lo sta aspettando e magari anche sua figlia, pensa, è rimasta a casa per cena. Forse hanno preparato una sorpresa, o almeno una torta. Sorride. Cinquant’anni: un’età importante. Il giro di boa. Si sporge ancora verso il parabrezza corrugando le sopracciglia. La nebbia rende la strada sconosciuta. È una sensazione strana. Inizia a contare. Ha percorso quel tragitto due volte al giorno, cinque giorni a settimana, per ventisette anni. Giorno più, giorno meno. Almeno tredicimilacinquecento volte, pensa. Minimo. Immagina il momento in cui, nella prima delle due pause caffè della giornata, dirà a un collega:
- Sai quella strada di campagna che faccio ogni giorno per venire in ufficio e tornare a casa? Pensa che l’ho fatta tredicimilacinquecento volte, le ho contate! E, credimi, non ho mai visto una nebbia come quella di ieri sera, non si vedeva un metro d’asfalto, potevo essere in un altro mondo e non me ne sarei nemmeno accorto — sorride. Ovviamente non lo dirà. Berrà il caffè e basta.

È cresciuto tra quelle campagne e alla nebbia, in questo periodo dell’anno, ci è abituato. È bella perché ti ci puoi nascondere, gli ha detto una volta la moglie. Lui non aveva saputo rispondere. Non aveva mai pensato alla nebbia come a un rifugio. Gli torna in mente un episodio della sua infanzia. Avrà avuto sei, sette anni, forse meno, era sera e il cortile era affollato e rumoroso. C’era aria di festa. Un gruppo di adulti parlava intorno a un tavolo sparecchiato. Lui era con gli altri bambini. Suo nonno raccontava una storia con l’enfasi esagerata di chi si diverte a far paura. Diceva che bisogna fare attenzione alla nebbia di queste campagne, perché è diversa dalle altre e a volte chi ci entra non torna più indietro. È successo a un bambino del paese: è uscito senza dir niente a nessuno, si è perso e la nebbia l’ha preso con sé per sempre. Ogni notte di foschia si riempiva delle sue grida acute. La madre, pazza di dolore, esasperata dalle urla del figlio smarrito, aveva preso la punta incandescente di un ferro appuntito e poi. E poi… se ne rende conto solo ora, non conosce la fine della storia. Paralizzato dall’orrore, in quel cortile di tanti anni prima, si era tappato le orecchie con le mani e aveva continuato a fissare la bocca del nonno aprirsi e chiudersi senza suono. Il vecchio l’aveva notato e aveva riso senza allegria, scoprendo i denti. Una pantomima grottesca e insensata. Era corso da sua madre piangendo e lei lo aveva abbracciato con triste imbarazzo.

Adesso si sta agitando sul sedile. Sente disagio. Non pensava a quell’episodio da moltissimi anni. Chissà se era successo davvero. Ma nemmeno la nebbia spaventosa delle leggende popolari assomiglia a quella di stasera. Questa respira. Si muove con lui. Si stringe attorno alla macchina. La luce sparata dei fari non la scalfisce, anzi, le dà una solida concretezza: come un muro di intonaco colpito da una luce di scena. Il paesaggio ha perso qualunque familiarità e gli si rivela un centimetro alla volta. Se non sapesse che è la stessa strada di sempre, dritta e senza deviazioni, potrebbe anche pensare di essersi perso, di girare in tondo.

Procede con esasperante lentezza e una smorfia involontaria si accompagna al pensiero che la moglie lo chiamerà da un momento all’altro.
- Sono le nove passate, la cena è fredda, dove cazzo sei?
L’uomo noterà la voce scocciata dall’altra parte del telefono e penserà che l’irritabilità è solo un’altra faccia dell’affetto coniugale. Sente il cellulare vibrare. Eccola. Lo cerca a tentoni nella tasca interna del giaccone. Lo trova, distoglie lo sguardo dalla strada per un solo istante. Ma è sufficiente. La coda dell’occhio registra il passaggio rapido di qualcosa. Una piccola figura scura. Sente un colpo sordo sul cofano. Inchioda. Il fischio delle ruote sembra un grido. Chiude gli occhi mentre la cintura lo trattiene violentemente contro il sedile. Quando mette a fuoco di nuovo, tutto è bianco e immobile. Nella sua testa c’è la stessa vuota, silenziosa freddezza che lo circonda. Ha il cellulare in mano ma non c’è nessuna chiamata.

Foto di Andrea Pravettoni

Scende dalla macchina. Sull’asfalto c’è una chiazza scura, sul bordo della targa il ciuffo di peli chiari di qualche animale, forse un gatto o una nutria. Per un attimo si sente distante da ogni cosa. Torna in macchina e chiude l’aria gelida fuori dalla portiera. Il cuore torna a battere regolarmente. Ride ad alta voce, finge di non accorgersi di quanto quel suono isolato appaia goffo e forzato. Riprende a guidare, piano. Ormai non manca molto a casa. Il motore e i pensieri si scaldano di nuovo. Pensa alla morte. Prima in generale, poi alla sua. Se fosse successo oggi, che peccato! Mezzo secolo di vita non è poi molto e sente che altre cose buone lo attendono. Forse le cose migliori. Conta di nuovo. Considerando l’aspettativa di vita media, ha non più del 30% di probabilità di vivere altri cinquant’anni. Come un passeggero sgradito, all’interno dell’abitacolo si materializza l’improvvisa consapevolezza di avere probabilmente alle spalle più tempo di quanto gliene resta. Non ci aveva mai pensato così esplicitamente. I cinquant’anni appena trascorsi gli sembrano un tempo minuscolo e inconsistente. Prova a mettere in ordine le cose che gli sono sembrate importanti. Dell’infanzia ricorda l’essenziale: la campagna, la macelleria del padre, le budella fredde degli animali, i capelli biondi di sua madre, i banchi azzurrini della scuola. È diventato in fretta un ragazzo solitario e sereno. Ogni giorno si svegliava presto e camminava fino all’istituto tecnico per geometri, il più vicino a casa. C’erano state cose che aveva considerato importanti, ma chissà che ne è stato. Lo zio gli aveva offerto un lavoro prima che finisse gli studi. Non aveva trovato un motivo per rifiutare e in ogni caso non ricorda di aver avuto altre aspirazioni. Per anni ha continuato a svegliarsi la mattina presto e a guidare fino all’ufficio. Ha fatto ogni giorno due pause caffè e ha guidato di nuovo fino a casa. Ha conosciuto sua moglie. Per alcuni anni ha anticipato la sveglia mattutina per accompagnare la figlia a scuola e arrivare comunque in tempo a lavoro. Ci sono stati compleanni, Natali e vacanze, trascurabili dispiaceri e piccole felicità. Gesti precisi e puliti. Ordinati. Dignitosi, tutto sommato. Tutto è avvenuto in modo talmente naturale da non aver fatto nemmeno lo sforzo di desiderare qualcosa. Ha la sensazione che la sua intera vita sia un album di foto dimenticato in una cantina allagata: una poltiglia di immagini sbiadite e carta molliccia. Verrebbe da chiedersi che ne è stato, e lui dov’era mentre tutto accadeva.

Non lo fa. Uno sguardo distratto all’orologio sul cruscotto gli rivela che sta guidando da due ore. Troppo, persino a velocità così ridotta. Doveva essere già arrivato a casa. Si guarda intorno incerto mentre il battito cardiaco accelera impercettibilmente e una goccia di sudore freddo cola tra i peli corti della nuca. Non vede altro che nebbia. Potrebbe essere ovunque. L’ansia spalanca il suo abisso, i pensieri si sfilacciano e lui vi si aggrappa per non cadere nel vuoto. È ancora sull’asfalto. Non può aver sbagliato strada. Non ci sono bivi. Sua moglie non ha chiamato. È successo qualcosa. Si è perso. Ma la strada non ha bivi. Dov’è? Forse l’orario è sbagliato. Se fosse finito fuori strada se ne sarebbe accorto. Doveva arrivare un’ora fa. Almeno in paese. Deve chiamare. Il cellulare. C’è solo nebbia. Non si vede niente. Non è andato fuori strada. È successo qualcosa. Si è perso. Come? Accelera di colpo e insegue il corto circuito dei pensieri, guida alla cieca. La nebbia si stringe tutto attorno ma non rallenta più. Da qualche parte dovrà pur arrivare. E di colpo ne esce, come si esce da uno spazio incantato. Nello specchietto retrovisore scorge un muro candido e impenetrabile. Davanti, finalmente, le prime case del paese. Riconosce la strada. La geografia gli parla. È sollevato e si sente stupido. Ma questa volta, per pudore, non ride.

Parcheggia davanti a casa, la luce del salotto è accesa. Le altre villette sono buie e silenziose, eppure non è così tardi.
- Mai vista una nebbia simile — dirà a sua moglie — ne avranno parlato anche i tg.
La strada è deserta e gli sembra che una leggera foschia salga dall’asfalto come vapore. L’uomo pensa alla cena, al calore, alla stanchezza, al letto. Non ha più voglia di festeggiare. Gli servono alcuni secondi per rendersi conto che la chiave non entra nella porta. Fa due passi indietro e osserva la facciata della villetta, il numero civico, il piccolo abete che sua moglie ha piantato in giardino due anni prima, la mattonella scheggiata davanti all’ingresso. Non c’è dubbio: è a casa. Eppure la chiave non entra. Suona il campanello. La serratura è stata cambiata? Di nuovo sente i pensieri diventare fili collosi. Una donna che sembra sua moglie socchiude l’uscio, lo sguardo esitante.
- Sì?
- Sono io.
- Prego?
- Sono io. Sono a casa.
- Io chi? — gli occhi le diventano due fessure.
- Tuo marito.
- Mio marito è già a casa. Se ne vada.
La voce le diventa leggermente acuta mentre chiude la porta di scatto. L’uomo sente il rumore della chiave che gira nella serratura, movimenti concitati. Sono io, pensa l’uomo. E quella è sua moglie. Con qualcosa di insolito nella voce, nel viso, forse un nuovo taglio di capelli. Calpesta il prato e si avvicina alla finestra che dà sul salotto. Vede il soggiorno illuminato. Il divano. La televisione accesa. È tutto familiare. Sul tavolino all’ingresso, in una selva di cornici, c’è un piccolo cane che corre in un prato. Una ragazza incoronata d’alloro, che sorride. Una donna in abito da sposa accanto a un uomo serio, con la fronte alta e le braccia rigide lungo i fianchi. Ricorda il momento dello scatto, l’ingombro di quelle braccia goffe. Ma adesso gli sembra di non riconoscersi affatto.

Appoggia la fronte al vetro freddo. Vede la donna, visibilmente agitata, che urla qualcosa. Ha in mano un cellulare. Una luce si accende in cima alle scale. Per qualche istante resta in piedi a fissare quella che avrebbe giurato essere la sua vita. Si chiede cosa è peggio: essere stato dimenticato o non essere mai esistito. Deve andare via, ma non sa dove. Si volta e muove qualche passo. Si sforza di mantenere l’equilibrio. Cerca con lo sguardo la sua macchina, ma la strada è vuota. Eppure ricorda di aver guidato a lungo, di essere arrivato da qualche parte. Di essersi perso? Non ne è sicuro. Procede lentamente, risalendo la via. Si sente profondamente stanco. Proprio davanti a lui, come un polmone, la nebbia ondeggia silenziosamente e lo aspetta. Cammina, in attesa che le cose che devono accadere accadano.

Foto di Andrea Pravettoni

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Chiara Beretta

Giornalista. Scrivo. Un po’ a Milano e un po’ a Torino.